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SCARONI E IL CANE A SEI ZAMPE: L’ITALIA CHE VINCE

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“O abbracciamo lo shale gas o abbracciamo la Russia”. Queste parole, recentemente pronunciate da Paolo Scaroni, ben descrivono la realtà odierna riguardante l’approvvigionamento di gas per l’Italia e per l’Europa. Per capire quale sia il significato del termine shale gas ed il motivo per cui oggi sia diventato così frequente sentirlo nominare, il perché l’ad di una delle maggiori compagnie petrolifere al mondo si esprima in questi termini e quali meccanismi ed implicazioni geopolitiche vi siano dietro a questa affermazione, faremo un passo indietro e capiremo come ENI operi oggi nel contesto dell’approvvigionamento energetico.

L’ente pubblico fondato da Enrico Mattei nel 1953 è presente oggi in 90 stati con quasi 80000 dipendenti, dal 1992 è una società per azioni per quanto de facto controllato dallo Stato tramite una consociata del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Cassa Depositi e Prestiti S.p.A.) con circa il 30% delle azioni ordinarie, quota destinata a salire sopra il 33% nei prossimi mesi; da settembre 2004 è guidato da Paolo Scaroni, uno dei più brillanti manager del nostro paese che in otto anni di gestione è stato capace di portare il fatturato dai 74,5 miliardi di euro del 2005[1] sino ai 127 del 2012[2], trasformando l’ENI in una vera e propria compagnia internazionale.

Dai tempi di Mattei e delle sette sorelle, molte cose sono cambiate nel modo di ricercare, estrarre e commercializzare gli idrocarburi: nuovi ed importanti attori si sono aggiunti al gioco alterando l’equilibrio che vedeva l’America spadroneggiare incontrastata in tutto il mondo, i paesi produttori hanno preso più coscienza della loro forza traendo vantaggio da modalità di concessione e sfruttamento assai più remunerative del fifty-fifty di un tempo e la tecnologia nel settore ha fatto passi da gigante dando la possibilità di arrivare a giacimenti una volta irraggiungibili. Tuttavia, il modo in cui una compagnia indipendente come l’ENI deve porsi a livello mondiale affinché eviti di impersonare il vaso di coccio circondato da quelli di ferro, non si è modificato di molto, anzi. I grandi attori atlantici hanno in qualche caso cambiato nome per via di fusioni e accorpamenti ma non il modus operandi; i nuovi colossi energetici dei BRICS (Gazprom e Petrochina su tutti) e di altre economie emergenti, hanno sconvolto i precedenti equilibri sui prezzi grazie al loro potere contrattuale, accaparrandosi giacimenti in tutto il mondo; la nostra compagnia di stato deve così affidarsi alle sue eccellenze per fare ancora la sua parte e garantire ad imprese e famiglie un approvvigionamento affidabile ed al miglior prezzo possibile.

 

 

SCARONI IL “NUOVO MATTEI”

Il crollo del Muro di Berlino ed il dissolvimento del blocco comunista hanno avuto, tra gli effetti principali, quello di far venir meno la tensione fra Est e Ovest, sino ad allora palpabile in ogni settore della vita sociale ed economica in tutto il mondo, Italia compresa. Non diremo cose nuove ricordando come ogni conflitto ed ogni avvenimento suscettibile di interesse che venivano alla ribalta in qualsiasi parte del mondo, assumessero rilevanza globale per via dellattenzione rivolta da parte dei due blocchi perennemente in competizione fra loro. Nel caso specifico dell’ENI, si è quindi visto come i tentativi di Mattei di emanciparsi dalla logica bipolare e di rilanciare l’Italia in quanto tale, abbiano portato alla sua eliminazione poiché scomodo nella logica di mantenimento dell’Italia sotto l’ombrello atlantico. Cessato il bipolarismo e con esso la minaccia comunista – e quindi proprio, paradossalmente, con l’affermarsi del sistema unipolare americano su scala mondiale – il nostro ente di stato ha potuto ampliare i suoi orizzonti e ricominciare ad operare con una maggiore autonomia proprio in virtù della cessazione di veri e propri diktat provenienti da paesi vicini ed organizzazioni sovranazionali. La nuova missione dell’ENI è stata quindi quella di andare a cercare nuove opportunità, ovvero cercare le materie prime in quei paesi dove non fossero già insediati i principali concorrenti occidentali, privilegiando invece quegli stati dove, spesso per motivi prevalentemente politici, le altre compagnie euro-atlantiche non operavano, lasciando quindi una possibilità d’azione che – particolarmente negli ultimi anni – è via, via aumentata.

E’ qui che risiede l’attuale forza del Cane a sei zampe ed è qui che Scaroni si merita l’appellativo di “nuovo Mattei”, in quanto artefice del ritrovato vigore espresso dall’ENI in paesi di importanza fondamentale dal punto di vista energetico come ad esempio Venezuela, Iran, Iraq, Libia, Angola, Nigeria e soprattutto Russia: paesi in alcuni casi complicati per la stabilità interna o le questioni legate ai diritti umani e non di rado bersaglio di critiche strumentali da parte della grande stampa italiana e occidentale. Non che in questo vi sia molto di cui stupirsi; ma per quanto oramai si sia più che abituati a leggere sonore distorsioni della realtà, per ragioni politiche, di settori critici come quello energetico, le affrettate accuse mosse talvolta nei confronti dell’attuale ad dell’ENI per via dei suoi rapporti con leader e rappresentanti di stati non troppo graditi (come Putin o Nazarbayev), ricordano molto quelle di cui fu spesso vittima, a suo tempo, proprio Mattei: oggetto di violenti e ripetuti attacchi da parte di autorevoli organi d’informazione a causa delle sue coraggiose politiche nate e sviluppatesi proprio grazie ai rapporti da lui instaurati con capi di stato allora invisi all’occidente come, ad esempio, Nasser e Mossadeq. Si tratta di un’analogia che altro non può che inorgoglire Scaroni, per quanto le stringenti misure di sicurezza a cui è costretto ad adeguarsi su indicazioni, non solo del servizio di sicurezza interno dell’ENI ma anche sui rapporti periodicamente trasmessi dal SIS, costituiscano senza dubbio un rovescio della medaglia non di poco conto; del resto, come precedentemente accennato, cambiano i tempi ma non la sostanza degli avvenimenti. In altri termini, sono le politiche energetiche a muovere il mondo e a costituire ancora e sempre una delle basi, se non la base, delle relazioni internazionali. Gli interessi in gioco sono più che rilevanti e con l’energia si fa politica: tanto ai tempi di Mattei, quanto al giorno d’oggi. E appare quindi evidente come determinate (e anche in questo caso coraggiose) scelte di campo operate da Paolo Scaroni nella più pura tradizione dell’azienda da lui guidata, destino fastidi e preoccupazioni fuori dai nostri confini. L’Italia riesce infatti ad essere un attore di rilievo e con un soddisfacente grado d’indipendenza, mantenendo alta quella fama che ci vede primeggiare in rapporti internazionali talvolta difficili e non raggiungibili agevolmente da chicchessia, andando controcorrente rispetto alla stragrande maggioranza dei paesi occidentali e con risultati straordinari: le notizie più recenti dimostrano infatti come l’ENI sia la compagnia con maggior successo al mondo negli ultimi cinque anni per le nuove scoperte effettuate e possa vantarsi d’essere oggi il primo produttore nell’intero continente africano (una tendenza destinata a crescere in virtù degli straordinari giacimenti scoperti di recente nel Mozambico), con in vista nuovi promettenti scenari che si prospettano particolarmente nei paesi rivieraschi asiatici quali Pakistan, Myanmar, Vietnam e Cina.

 

 

IL NODO DEL GAS

E’ noto come al giorno d’oggi siano il petrolio ed il gas a ricoprire l’importanza principale fra tutti gli idrocarburi. Tuttavia, da ormai molti anni ed in tutto il mondo, è stata operata una scelta che ha di fatto assegnato al gas un ruolo preminente per ciò che riguarda la produzione di energia elettrica, relegando il petrolio ad essere sempre più funzionale ai trasporti. Nel caso dell’Italia e dell’Europa tutta (fatta eccezione per pochi paesi come Olanda e Norvegia), questo ha significato affidarsi ai gasdotti che dal Nord Africa e soprattutto dalla Russia portano questo prezioso elemento fino all’interno dei nostri confini. Una scelta che per l’Italia è consistita – pur nell’ambito di una saggia ed ampia diversificazione – nell’abbracciare principalmente la Russia per ciò che concerne l’approvvigionamento di gas (per avere un’idea della situazione attuale, nel 2012 in Italia sono stati immessi nella nostra rete 75,78 miliardi di mc di gas, di cui circa 67 provenienti dall’estero – il 30% dei quali dalla Russia – e solo poco più di 8 dalla produzione nazionale[3]). I motivi dietro alla scelta di privilegiare Mosca rispetto ad altri esportatori sono ovviamente di natura economica – visto che il gas russo è quello più a buon mercato – ma anche di natura politica, poiché Mosca si è rivelata essere un partner affidabile e dalla ritrovata autorevolezza in campo internazionale, oltre ad essere imprescindibile per l’economia italiana in virtù del volume d’affari esistente fra i due paesi in molti settori. I legami energetici che uniscono Mosca a Roma risalgono ancora agli anni ’50 del secolo scorso, ma è stato negli ultimi anni che le relazioni si sono fatte ancor più solide: Berlusconi e Prodi hanno gettato le basi per un ulteriore passo in avanti verso i russi e, con l’appoggio determinante di Scaroni e dell’ENI, hanno fatto sì che per il futuro l’Italia privilegiasse il gas russo del progetto South Stream invece che quello del Nabucco (rivelatosi pressoché inesistente poiché il Turkmenistan, paese centroasiatico dal quale sarebbe dovuto partire alla volta dell’Europa, ha preferito cederlo alla Russia), caldeggiato dall’Unione Europea e soprattutto dagli Stati Uniti, al fine di ridurre la dipendenza energetica da Mosca e allentare quindi i sempre maggiori rapporti politico-economici.

Il nodo dietro alla costruzione dei due nuovi, enormi gasdotti, risiede nella necessità di garantire l’approvvigionamento senza alcun intoppo: e alla luce di quanto sta ancora oggi accadendo in Ucraina, si può ben capire cosa all’epoca avesse portato Gazprom ed i suoi partner (fra i quali l’ENI, per South Stream, è il principale) a voler diversificare le rotte del gas – allora transitanti per gran parte proprio attraverso l’Ucraina – aggirando Kiev per evitare che i suoi rapporti altalenanti con Mosca andassero ad influire ancora negativamente sul trasporto del gas verso il cuore dell’Europa. Furono ideati così due percorsi alternativi: quello a Sud, che dalla Russia tramite il Mar Nero si sarebbe poi biforcato in Bulgaria per giungere in Austria, Croazia e Slovenia da un lato, e dall’altro verso la Basilicata (per la quale esiste un avanzato progetto affinché diventi un vero e proprio hub del gas per l’intera Europa centro-meridionale); e quello a Nord, il North Stream, un collegamento che attraverso il Mar Baltico servirà invece a convogliare le forniture alla Germania, primo partner commerciale russo all’interno della UE.

Quando però parliamo di gas a livello non solo italiano bensì europeo, dobbiamo giocoforza paragonarci al nostro principale concorrente per ampiezza e caratteristiche del mercato – ovvero gli Stati Uniti, che oggi pagano il gas tre volte in meno rispetto all’Europa e spendono la metà per l’elettricità. Sono differenze abissali che ragionate in termini di competitività industriale creano un notevole svantaggio per le imprese europee, costrette ad avere dei costi energetici assai superiori a cui s’aggiungono le problematiche derivanti dalla debolezza del dollaro (e quindi dalla maggior competitività dell’industria americana sui mercati esteri), dall’ambiente più “business friendly” (volendo usare le testuali parole di Scaroni) rispetto agli impacci della burocrazia ed al giogo dell’alta tassazione tipicamente europei, e dagli investimenti stranieri che già cominciano a venir dirottati dall’UE verso gli Stati Uniti, specialmente per ciò che concerne le produzioni ad alto consumo energetico in settori come la chimica e la siderurgia (è notizia recente la decisione del colosso euro-indiano ArcelorMittal di seguire questa rotta per trasferire parte della sua produzione). Se questa è l’attuale differenza fra le bollette europee e quelle statunitensi con – si è visto – tutte le ricadute del caso, lo si deve di certo a dei fattori di una certa rilevanza come gli alti costi per l’adeguamento alle fonti d’energia rinnovabili (che gli europei hanno intrapreso da anni e che vanno ad incidere, nel caso italiano, per il 20% dell’ammontare delle bollette) ed i costi di costruzione delle infrastrutture atte al trasporto energetico fra le quali spiccano i nuovi, enormi gasdotti attualmente in costruzione; ma ad influire più di tutto è l’effetto rivoluzionario che lo shale gas sta avendo nel settore energetico statunitense e con cui ci ricolleghiamo all’affermazione di Scaroni precedentemente citata.

Se sino ad ora, infatti, il gas in questione era quello più noto come convenzionale – ossia il gas sedimentato in giacimenti dai quali, una volta individuato, è tutto sommato agevole estrarlo –  con shale gas s’intende il gas intrappolato in blocchi d’argilla solida dai quali dev’essere estratto mediante un complicato metodo denominato fratturazione idraulica (più noto come fracking). Si tratta di un metodo costoso, rumoroso e con degli svantaggi dal punto di vista ambientale abbastanza oggettivi: è invasivo sotto il profilo paesaggistico, comporta l’utilizzo di un’enorme quantità d’acqua necessaria a rompere i blocchi, è inquinante per via degli additivi chimici che vanno utilizzati (per quanto la profondità a cui avverrebbe tale processo è molto superiore a quella in cui sono generalmente presenti le falde acquifere) ed infine non si può escludere che possa costituire una causa di fenomeni sismici. La scoperta di questi giacimenti negli Stati Uniti è stata una vera e propria rivoluzione che avrà (e pare stia già avendo) anche significativi risvolti geopolitici: d’un tratto, infatti, oltre ad aver scoperto la presenza di giacimenti petroliferi che le garantiranno di diventare nel 2015 il primo esportatore di idrocarburi al mondo (superando per la prima volta la Russia), l’America ha scoperto di essere già indipendente per ciò che concerne il gas: basti pensare che considerando soltanto i giacimenti di rocce scoperti sino ad ora, si stima che questi basterebbero per garantirle l’autosufficienza per i prossimi 200 anni.

Ma se gli Stati Uniti non sono gli unici a possedere questo patrimonio nella profondità del loro territorio, ciò che cambia è la possibilità pratica di poterlo estrarre, cosa che accade facilmente negli USA (dove opera anche ENI) per ragioni molto semplici: i mezzi tecnologici di cui già dispongono in loco, l’abbondante presenza di spazi enormi e disabitati ed una legislazione che concede al proprietario della porzione di terreno da fratturare di ottenere ingenti ricavi in quanto direttamente proprietario del giacimento. Differenze profonde rispetto all’Europa dove gli Stati posseggono ogni diritto sul sottosuolo (con cui eliminerebbero gran parte di quella convenienza per i privati allo sfruttamento) e dove l’alta densità di popolazione impedisce questo processo senza scatenare veementi – e spesso giustificate – proteste. Tuttavia, nonostante queste difficoltà, anche nel vecchio continente vi sono paesi che accettano di superare questi ostacoli, quali la Polonia e l’Ucraina (dove ENI è già presente), e altri che avrebbero le potenzialità di farlo per quanto ancora dubbiosi sulla bontà della scelta, Regno Unito in primis; pur considerando le spinte in senso opposto che vengono dal primo fornitore di gas per l’intera Europa – la Russia, col 25% del totale – che vedrebbe in questo metodo innovativo una diminuzione della domanda da parte di alcuni tra i suoi migliori clienti.

La stessa Russia che potrebbe costituire la più valida alternativa alla rivoluzione dello shale gas ed essere l’artefice del riallineamento dei prezzi rispetto agli Stati Uniti: una prospettiva che potrebbe facilmente avverarsi e che secondo Scaroni è quella al momento più logica, data l’ingente disponibilità di gas convenzionale ed i bassi costi di estrazione, oltre ai floridi rapporti già esistenti. Una scelta che dovrà però comportare come condicio sine qua non l’abbassamento dei prezzi sulle forniture, abbandonando la scellerata idea dell’aumentare i prezzi con cui Gazprom ha tentato di bilanciare il calo della domanda derivante dalla crisi degli ultimi anni, una situazione che ha persino visto all’interno dell’UE ritornare in auge il tanto vituperato carbone (da sempre l’idrocarburo più economico nella produzione di energia elettrica) con conseguenti danni ambientali e l’annullamento di parte dei benefici derivanti dall’aver intrapreso l’utilizzo delle energie rinnovabili. Un esempio lampante, quello dell’aumento dei prezzi, di strada da non percorrere assolutamente; poiché è interesse reciproco continuare nei proficui e pluriennali rapporti commerciali, specialmente per la Russia che fonda gran parte del suo ritrovato vigore proprio sulle massicce esportazioni di energia, dalle quali al momento non può prescindere.

 

 

SCENARI ATTUALI E FUTURI

Riassumendo il quadro energetico attuale e delineando uno scenario sul prossimo futuro, la priorità per i paesi europei è invertire l’attuale tendenza che ci vede in una posizione d’inferiorità rispetto all’America per il costo dell’energia. Aumentare l’importazione di gas da Mosca con un contestuale abbassamento dei prezzi sembra essere la via più semplice ed auspicabile, giacché si è visto come beneficiare dello shale gas in Europa non sia al momento una via percorribile per ottenere quei volumi sufficienti a garantire un approvvigionamento completo; d’altro canto, sfruttare le recenti scoperte americane importandole nel nostro continente, sarebbe – oltre che di dubbio senso logico per il fatto di andare a versare ulteriori denari nelle casse statunitensi – anche inutile, in quanto gli alti costi di trasporto e raffinazione andrebbero ad annullare i benefici derivanti dal basso costo all’origine

Le fonti rinnovabili non possono ancora garantire una fornitura affidabile, hanno seri problemi di stoccaggio e funzionano ad intermittenza; impensabile pensare, prima di qualche decennio, che esse possano sostituire in maniera affidabile gli idrocarburi sostenendo i consumi attuali. Il nucleare rimarrebbe una strada sicura e affidabile, ma desta preoccupazioni e l’Italia si è nuovamente espressa a riguardo riaffermando il “no” al suo utilizzo (per quanto l’acquistiamo poi dall’estero). Allo stesso tempo, è d’obbligo ridurre il carbone che come già accennato ha conosciuto una ripresa negli ultimi anni, in cui le sfavorevoli condizioni economiche ne hanno rilanciato l’utilizzo per via dei suoi bassi costi, avendo quindi a monte l’energia sempre più cara e come risultato un aumento dell’inquinamento quale risultato per bilanciare il divario, andando contro ogni tendenza sbandierata (e auspicata) di recente.

Infine, un argomento da sempre a cuore al numero uno dell’ENI, che ricalca semplicemente ciò che proporrebbe il buon senso e che sarebbe di primaria importanza, è un uso efficiente dell’energia. La pessima abitudine dello spreco costituisce una delle prime cause degli alti prezzi delle nostre bollette, un’eredità figlia di un consumismo oggi più che mai senza senso e che bisogna lasciarsi alle spalle operando invece scelte più giuste. Affidandosi sia a tutti i più moderni ritrovati che la tecnologia ci offre per un utilizzo corretto delle risorse, sia ad idee di banale saggezza e semplice applicazione: in ENI ad esempio, d’estate non si portano le cravatte e si tiene l’aria condizionata un po’ meno forte, un piccolo gesto ma di grande impatto e che dovrebbe far riflettere su alcune manie a cui siamo abituati e che simboleggiano lo spreco di un bene prezioso (e costoso) in nome, talvolta, di scelte di marketing o di immagine.

Non si vorrà con questa affermazione calcare troppo la mano sul cosiddetto “antiamericanismo”, ma è tuttavia lampante come determinati comportamenti e abitudini purtroppo comuni abbiano origine proprio oltreoceano, dove l’abbondanza ed il conseguente scialo di energia in spregio a tutte le più elementari regole di rispetto dell’ambiente (e anche al suddetto buon senso) ha sempre costituito ben più di una pratica occasionale e che purtroppo ha scavalcato molti confini. Basti pensare che soltanto sostituendo le macchine oggi in circolazione negli Stati Uniti con i modelli usati in Europa, si risparmierebbe l’intera produzione di petrolio effettuata (a pieno regime) da un paese come l’Iran, pari a circa quattro milioni di barili al giorno.

Abbandonare le cattive abitudini sarà già un ottimo, primo passo verso consumi più intelligenti, razionali ed economici, ma chiudere nuovi accordi più vantaggiosi con i nostri fornitori di gas, russi innanzitutto, è la chiave per riallinearci all’America e riguadagnare la competitività perduta.


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